Si fa presto a dire pizza…

Oggi propongo una nota letta sul gruppo Facebook “SALERNO CITY” a opera di Salerno Attiva Activa Civitas:

ECCO LA PIZZA DEL FUTURO
(Innovare per crescere: qualità degli ingredienti per cuocerla meglio, a partire dalla farina che non è più quella di una volta)

Si fa presto adire pizza, ma quale? Un tempo la pizza era solo margherita o alla napoletana o, con qualche apertura alla fantasia, capricciosa o al prosciutto. Ora in molti locali è invece diventata una sorpresa: la forma che abbiamo memorizzato nel tempo, ovverosia la tonda è diventata quadra o allungata; gli ingredienti impiegati nella preparazione e i gusti non sono più gli stessi a cui siamo stati sempre abituati. 

Vero è che la “tradizione è un’innovazione riuscita” ma la pizza resta per tanti un qualcosa di familiare, di storico, di affettivo così come il caffè. Purtroppo pizza e caffè sono spesso “trangugiati” con sufficienza, con poca attenzione, quasi per un rito automatico, dovuto alla fretta.

Un fenomeno che, forse, tocca di meno la Campania, dove la pizza e il caffè sono ancora degustati e sorseggiati con il dovuto rispetto che si deve a un bravo pizzaiolo o a un simpatico barista.

Anzi spesso sono sottoposti a critiche feroci quando la forchetta puntata sul centro della pizza “affonda” o scivola nel piatto, quasi fosse Alberto Tomba o ancora quando, mentre si mastica pare di avere sotto i denti un chewingum o quando il coltello riduce il cornicione in briciole.

Soprattutto la rivolta contro la pizza è sparsa ovunque, in città, borghi e villaggi, allorché durante la notte ha inizio il tormentone della digestione capricciosa, difficile e si pensa… chissà le farine, la scarsa lievitazione e quale altro diavolo ha impiegato quel pizzaiolo del piffero!

È questo il male oscuro che colpisce tante pizze: la digeribilità! Verrebbe di affermare: una, nessuna, centomila pizze. Una querelle che ha perfino interessato il giornale inglese «Guardian» che, mesi fa, ha inviato a Napoli un giornalista per scoprire la tendenza della pizza, incuriosito da ciò che sta succedendo a questo piatto, così conosciuto e imitato nel mondo.

Forse perché si è intuito che è in corso una grande “rivoluzione”
(così è stata definita dal pizzaiolo Renato Bosco di Saporè di San Martino Buon Albergo) di questa pietanza “made in Italy” che potrebbe portare una grande crescita della qualità, soprattutto tornando al passato con l’utilizzo di prodotti poveri d’antan, dall’importante valenza culturale, come le farine macinate a pietra, ma allo stesso tempo innovando con il ricorso al lievito madre, alle farine integrali, alle lunghe lievitazioni.

Un mix che permette minor uso del sale offrendo così anche miglior digeribilità e al tempo stesso croccantezza e gustosità. Un contributo alla crescita è arrivato anche e soprattutto dagli ingredienti, a cominciare dalle farine dove ha giocato un ruolo importante il Molino Quaglia, prima con l’Università della pizza, da cui è nata la farina Petra, poi con il manuale della Pizzeria Dinamica e infine con un manifesto della pizza Contemporanea, una vera e propria chiamata a raccolta di pizzaioli e opinion leader.

Come la cucina, anche qui ci sono due scuole di pensiero tradizionalisti e innovatori o ancora chi li contraddistingue come scuola napoletana, scuola romana e pizzaioli d’Avanguardia (non definiamola, per carità, pizza gourmet, è un no sense e anche pizza gastronomica è una ridondanza inutile): distinzioni che sono fuorvianti dal risultato finale.

La Pizza è pizza se di qualità: digeribile, croccante o non lo è, indipentemente dalla scuola di pensiero o dall’applicazione di strambe definizioni.

Certo la pizza di Simone Padoan o di Berberè o di Renato Bosco o di Sirani è diversa da quella della storica tradizione napoletana dei vari Enzo Caccia o Franco Pepe, Gino Sorbillo, Mario Bachetti, i fratelli Salvo e dalla scuola romana iniziata da Giancarlo Casa o di Gabriele Bonci, altro pizzaiolo che ha portato nella produzione grandi novità. Vicino a questi nomi sarebbe necessario aggiungerne molti altri (numero in grande crescita) che hanno tutti un comun denominatore, nonostante le diversità nel processo di lavorazione: la serietà, la professionalità e la voglia di sperimentare.

Solo in poche pizzerie, fino a qualche anno fa, si poteva riconoscere questa valenza e forse misera era la domanda di qualità anche da parte del consumatore di questo piatto a cui dava solo valore nutritivo. Oggi si comincia a concedere una grande valenza gastronomica a questo piatto, nato povero, ma ricco nel gusto, nella speranza che la “pizza commodity” (quella ottenuta con salsa di pomodoro di dubbia provenienza, di farine scadenti, poco lievitata, di mozzarella surgelata) piano, piano faccia rientro al capolinea.

È una pietanza che MERITA RISPETTO, così come di pregio dovranno essere anche gli abbinamenti (vini di qualità, birre artigianali, non solo bevande gassate).

La pizza è un patrimonio dell’umanità (altro che la dieta mediterranea), perché apolide, trasversale, multiculturale, conviviale e comunitaria; non è solo un piatto, ma un modo metaforico di vivere, una scelta.

(Domenica 24 del 14/10/2012)

 

 

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